junior alla pari

sabato 4 ottobre 2008

Anna Politkovskaya - Una donna coerente



Il 7 ottobre 2006, Anna Politkovskaja
viene assassinata nell'ascensore del suo palazzo, mentre stava rincasando.
Quarantotto anni, Anna Politkovskaja era una giornalista come pochi in Russia. Era corrispondente speciale per il giornale Novaya Gazeta ed era divenuta una dei più importanti difensori dei diritti umani nel Paese.Negli ultimi anni, quando i media russi stavano affrontando pressioni sempre più forti, sotto l’amministrazione del presidente Vladimir Putin, era riuscita a restare una voce indipendente. Era divenuta una figura internazionale che spesso parlava all’estero di una guerra che definiva “terrorismo di stato contro terrorismo di gruppo.”Rappresentava ormai una stridente critica a Putin, che accusava di soffocare la società civile e permettere un clima di corruzione e brutalità ufficiali.E’ stata trovata morta da una vicina poco dopo le 17. Accanto al corpo, una pistola Makarov 9 millimetri, firma di un omicidio su mandante, ha riferito Vitaly Yaroshevsky, vicedirettore della Novaya Gazeta, in un’intervista telefonica.

venerdì 3 ottobre 2008

Figli del vento


Ogni fotografia è un certificato di presenza.
Roland Barthes

Alle SANTE MARIE DEL MARE ogni 24 di maggio si ritrovano dal 1946, in migliaia, Gitani, Manouches, Rom, Sinti o come vi piace di chiamarli.
Nella cittadina della Camargue, mediterraneo francese, perché lì ci sono le loro due Sante Marie insieme alla loro protettrice Santa Sara, detta anche Sara la Nera. Maria di Giacobbe, presunta sorella della Madonna, e Maria Salomé vi arrivarono dalle terre di Palestina con Maria di Magdala, Lazzaro ed altri cristiani iniziando l’evangelizzazione del sud francese.
Anche Sara, forse domestica delle due Marie, si imbarcò fortunosamente sulla navicella, senza remi né vele, camminando, secondo il leggendario, sulle acque con l’ausilio di un mantello steso opportunamente per Lei dall’imbarcazione. In lingua tzigana Sara la nera, cioè Sara-la-kali, significa sia gitana che nera.
Da ciò la tradizione di festeggiare le feste gitane a Saintes Marie de la Mer, toponimo attestato dal 1839, con il rito culminante della processione che vede la discesa in mare del simulacro di Santa Sara, scortata dai gardians, cavalieri camarguensi, e da un colorato folcloristico corteo, con i portatori che s’immergono nelle acque per ricordare la tradizione della Santa venuta dal mare, portatrice della nuova fede, e rinnovare l’unione mistica tra terra e mare e il mito fondativo.
Da circa due secoli la cittadina è meta di pellegrinaggi delle genti nomadi sparse per l’Europa. La Camargue, terra di tori è stata ospitale con i figli del vento, popolo che non si è mai ristretto nei confini di uno Stato. Abili commercianti, domatori di cavalli, artigiani di metalli e pentole, suonatori alle feste e giostrai itineranti, venditori di merceria porta a porta, artigiani del rame e capaci di leggere la mano e fondi di bevande. Alcuni uomini portano i baffi e le donne portano gioielli che rappresentano il “tesoro” del gruppo e vestono abiti colorati, gonne lunghe, fazzoletti annodati sul capo quando si maritano. Molte di esse, con bambini appesi al collo, fanno dell’accattonaggio il loro mestiere.
Il nomadismo come scelta e stile di vita. Una concezione del tempo e dello spazio lontana dalla consuetudine occidentale, origine di incomprensioni e ostacolo a forme di interculturalità.
Comunque alcuni stili di vita originari stanno cambiando, soprattutto tra le giovani generazioni che frequentano le scuole pubbliche, celebrano matrimoni misti con i gagè fondendo così varie culture.
Ma la storia dei gitani è anche storia di grandi misconosciute persecuzioni: al processo di Norimberga non fu ammessa la loro testimonianza nonostante furono massacrati in oltre 500.000 nei lager nazisti.
Gli zingari chiamano se stessi rom, cioè uomo, ma anche marito. Gli altri, i non zingari, sono gagé. Sarà per questo che quando non sono perseguitati, sono ignorati?LORENZO non è un fotografo, nel senso che la sua professione è altra. Ma Lorenzo Spagnolo fotografa da quando è stato affascinato dalla duplicazione artificiosa del reale tanto da rendere l’artificio prossimo alla propria sensibilità. Va in giro con la sua macchina fotografica manuale, fotografa in bianco-nero e trova sempre un posto, in casa, dove approntare una camera oscura provvisoria. Fotografare è una forma di conoscenza apprendendo attraverso un mezzo: è una pratica riflessiva e mediata.
Nelle sue immagini i volti, tanti di bambini, anziani, donne sensuali e mature. Sante che si mischiano con un popolo che scandisce il proprio tempo a suon di musica. Musica vissuta come espressione profonda della loro anima e che celebri musicisti, come Bartok e Stravinsky, hanno incorporato in composizioni rapsodiche e melodiche, mentre la fisarmonica continua ad essere lo strumento preferito e il fuoco il centro e punto di ritrovo per la comunità. I Manouches e i Sinti sono grandi appassionati di musica e compongono famose orchestre tzigane, generalmente idonee per rallegrare i matrimoni e lenire gli strazi dei funerali.
La festa è festa ed è tale quando c’è musica da ballare (Bachofen).
Lorenzo va in giro e scatta, e il reale lo colpisce fino nel fondo là dove risiedono le emozioni e i sentimenti si fanno valori.
Scatta e poi sceglie, e mentre ci narra di una festa di maggio in un certo posto dell’Europa ci racconta, invero, di una storia che non è solo di un popolo ma storia dei popoli. Tutto ciò non è un niente in epoca di omologazione culturale.
Il nomadismo come forma della attuale condiziona; il nomadismo culturale non solo per sfuggire ai meccanismi sociali ma come ricerca di nuova complessità che rischiari orizzonti e dimensioni altre della dignità personale e collettiva.
Così Lorenzo si ritrova alle Santes Marie de la Mer e, come in tutti i veri viaggi, esplora dentro quanto condivide con gli altri. Così, infine, il ritrovarsi di un popolo in raduni annuali, modalità per un’etnia divisa e sparsa di ricostruzione di legami, di conferma di tradizioni, di an-coraggio ad una identità minacciata, offre agli altri gagé l’occasione per ritrovare e ritrovarsi come rom, cioè uomo.

Brindisi, marzo 2005
Emanuele Amoruso




CHI SIETE? COSA PORTATE? SI MA QUANTI SIETE?


di Milena Magnani (*)


In questa Italia estiva, con i bambini degli insediamenti che si preparano a sgranare gli occhi e a ridacchiare di fronte alla spugnetta di inchiostro che prenderà loro le impronte digitali, mi viene spontaneo il rimando alla straordinaria scena del film di Troisi e Benigni “Non ci resta che piangere” scena nella quale il doganiere con il tavolino a ridosso della linea di confine ripete meccanicamente una serie di quesiti ai due sventurati viandanti senza lasciare loro il tempo di rispondere (trattandosi di quesiti evidentemente del tutto inutili) e solo introduttivi della vera questione di fondo: pagatemi un fiorino!
La scena, indubbiamente esilarante, riassume in modo magistrale il nostro rapporto con lo straniero, trattandosi di un rapporto basato principalmente su un unico criterio e cioè la valutazione del vantaggio o dello svantaggio economico che comporta la sua presenza all’interno della nostra società.
Mi si dica pure la solita tiritera circa l’aumento della paura e dell’ insicurezza che tanto grava nella vita quotidiana degli italiani, si intervistino pure le persone allarmate che di fronte alle telecamere compiacenti lamentano le sorti della nostra povera Italia! E dicono: Oddio! Cosa stiamo diventando, non si può più uscire di casa!.
La verità è che come il doganiere di “Non ci resta che piangere” la maggior parte delle persone che gridano all’allarme straniero non ha mai ascoltato davvero la sua voce , non ha mai ascoltato che cosa lo straniero porta, la sua storia ad esempio, la sua vicenda umana, e si sono limitati a chiedergli: Un fiorino! E cioè: paghi le tasse? Hai la casa? Delinqui, cioè comporti un danno?
Non a caso, anche nella mia amata Bologna, la maggior parte delle argomentazioni anti rom e anti straniero che mi capita di ascoltare per strada, sono basate su questo genere di argomentazioni: “ e io devo pagare le tasse per lui!? magari per fargli avere le case popolari mentre io mi sveno per pagare il mutuo!!”

Mi sento amareggiata, sarà perchè negli ultimi anni ho girato e parlato con i rom e i sinti di vari insediamenti, sarà perchè vivo in una Bologna che, quando ero bambina, ha fatto il 68 e il 77 e avevo creduto (ma forse avevo capito male) che certi valori, almeno da quel momento preciso della storia italiana in poi, fossero valori acquisiti come definitivi e condivisi da quella enorme frangia di società che si dichiarava progressista.
Parlo dei valori del rispetto, della accoglienza, della solidarietà e, non ultimo, della spartizione della ricchezza.
Ma povera illusa! Soprattutto questo ultimo “valore” e cioè il principio economico della spartizione, appare oggi per quello che di fatto è, un pericolo e una spettrale minaccia per la salvaguardia dell’unico vero e fondante valore della nostra civiltà contemporanea, che è esclusivamente l’accumulo e la tutela del grande capitale.

Si badi bene che non intendo fare analisi politiche da quattro soldi.
Voglio solo dire, a chi ha orecchie per intendere, che forse, è bene svegliarsi tutti un pò.
Forse è giunto il momento di cominciare a capire qualcosa di più di quello che sta accadendo, e quello che sta accadendo, è un fenomeno tragico e di portata epocale e che, si badi bene, non riguarda mica i migranti che in colonna continua vagano nel nostro occidente opulento alla ricerca della loro fetta di sacrosanto benessere, quello che di tragico sta accadendo riguarda noi, proprio noi, presunto popolo italiano del benessere.

Ma davvero nessuno si è accorto che da anni il sistema dell’economia liberista ha messo in atto a nostro danno la più grave e pervasiva pulizia etnica della storia?
Nessuno si è accorto che provvedimenti come quello di prendere le impronte digitali ai rom non sono altro che un modo per appiattire ancora di più tutti noi, sopra quel modello di uomo bonificato, senza tradizione e senza storia, che è funzionale alla legge del mercato?
Nessuno si è accorto di come siamo ridotti?

Probabilmente aveva cominciato a gridarlo Pasolini quando con la su raffinata e lungimirante intelligenza cominciò a parlare di quel processo di omologazione che stava appiattendo il popolo Italiano già negli anni 60, ha continuato a vederlo bene Giuliano Piazzi, docente di sociologia all’università di Urbino, quando nel 1999 in libro straordinario che è “il principe di Casador” affermò che l’unico principio sociale che governa di fatto la nostra esistenza è la logica dell’alta finanza e del grande capitale. E infatti lui diceva, che cosa comporta dentro la vita della gente comune la logica pervasiva del grande capitale? Questa logica compie una vera e profonda pulizia etnica. Sterilizza l’antropos, e cioè la storia e le tradizioni e i principi di interiorizzazione emozionale che erano parte fondamentale della nostra identità e ci rende tutti perfettamente funzionali al consumo.

Ma davvero non riusciamo a sentirlo? Ma davvero non ci stiamo allarmando?
Esiste veramente qualcuno che crede di perdere la sua “italianità” per colpa della presenza sinta e rom sul territorio nazionale?
O qualcuno che vede in crisi i valori civili e cattolici a causa della presenza sempre più massiccia dei popoli islamici?
Ma quelle migliaia di persone incantate di fronte a programmi televisivi come il grande fratello, quelle persone che passano “ore” della loro vita a guardare quattro stupidi ragazzotti che scodinzolano dentro gli studi di una tv spazzatura, non ci dicono nulla?

Ma quelle domeniche d’inverno in cui la città si riversa negli ipermercati e in modo compulsivo si sgomita tra le corsie con il carrello ricolmo e si sbraccia verso le offerte di i pod o verso gli ultimi modelli di televisori al plasma? Ma non ci suggeriscono qualcosa di spaventoso?

Ma chi siamo? Ma cosa fa la qualità della nostra vita e del nostro tempo? Il senso della nostra socialità, qual’è?
Ma come mai nessuno urla a chiare lettere che in una situazione sociale come questa ci sarebbe bisogno di aumentare un pò le tasse a tutti, per sopperire al principio solidale (( non ché cristiano, nonché eredità della nostra cultura contadina) della così imprescindibile uguaglianza sociale? Ma davvero fa scandalo pronunciare queste parole?

Ma qualcuno si fa queste domande?

Voglio farvi un esempio: non ci dice nulla il fatto che nella nostra Roma capitale così propensa a sgomberare i campi rom e a togliere il menù etnico dalle scuole, sia stato però trovato lo spazio per costruire un’intero quartiere, costruito in meno di due anni, per servire il più grande centro commerciale d'’Europa che si chiamerà Euroma 2.
Non ce n’è abbastanza per dire “ non ci sto!?”
Non ci sto ad essere un’adepta di questa follia politica e economica che crea templi del consumo di massa di fronte a cui mi dovrei inginocchiare calpestando i più basilari principi di società solidale.
Non ci sto!!
E non mi importa se la politica, quella che siede nel nostro parlamento, è una politica corrotta fatta da uomini a donne senza credibilità.
La credibilità va ritrovata da qualche parte, non si può accettare la resa, nonsi può accettare questo appiattimento delle differenze.
Pensano davvero che la felicità consista nel girare in una città asettica, dove la miseria è occultata, per poter andare ad acquistare indisturbata ciò la pubblicità mi ha istigato a rincorrere?

Per questo voglio ringraziare tutte le persone rom che stanno oggi sul territorio Italiano, le ringrazio perchè si sono mantenuti altro da questo disastro, perchè sono uno dei rari avamposti di resistenza , perchè di fronte a loro la nostra civiltà si mostra rozza per quello che è e incapace di dare senso e incapace di abitare il rispetto.

Dico grazie da questa barchetta su cui stiamo, questa barchetta italiana alla deriva e dal ritorno molto arduo.

CHI SIETE? COSA PORTATE? SI MA QUANTI SIETE?
Rispondo: Siamo cittadini semplici. Portiamo il rispetto per le differenze e per un vita umana solidale e essenziale. Non abbiamo paura dei rom perchè tra i rom e i sinti abbiamo tanti amici.
Non abbiamo paura di pagare le tasse.
Siamo tanti.

UN FIORINO!

(*)
Milena Magnani, nata a Bologna nel 1964, vanta un’ampia esperienza nel settore dell’educazione e dell’accoglienza. Ha esordito con il romanzo L’albero senza radici (Nuova Eri 1993), a cui ha fatto seguito nel 1996 Delle volte il vento (Vallecchi) e nel 2008 Il circo capovolto (Feltrinelli).